Con il vento nei capelli

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Anonimo parcheggio di periferia. L’ideale per stare in auto un paio d’ore. Nell’attesa. Davanti al parcheggio c’è un campo di atletica ma non c’è nessuno. Quasi nessuno. Il tempo è grigio, incerto. A momenti comincia a piovere forte, poi smette ed esce il sole. Ma siamo in estate. C’è solo una ragazza, esile, attillata nella sua silouette fucsia che libera due gambe da ballerina e una donna un po’ più grande lì con lei. La donna grande tiene spesso le braccia conserte mentre un cronometro le penzola dalle mani. La ragazza, che potrebbe chiamarsi Martina, Valentina oppure Aurora, prova e riprova lo scatto della corsa ad ogni “hop”che la donna pronuncia e poi sfreccia veloce lungo il rettilineo dei cento metri. Prova e riprova più volte. Due ore. Tutto il tempo che sono in auto nel parcheggio.
“ Si può sempre migliorare mi dice il dentista ieri. Perché non farlo?” Forse pensa così anche la ragazza china sui blocchi di partenza. Forse pensa così anche la donna dalle braccia conserte e dal cronometro in mano. Dove finisce la possibilità di migliorarsi. Dove comincia la resa. Quando la resa è un atto di fede e quando invece è solo la voce di quella parte di noi pigra, abitudinaria, che boicotta il nuovo e costruisce una filosofia di vita adatta a compiacerci.
“…Ma se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante, cancella con coraggio quella supplica dagli occhi tuoi. Molto spesso la saggezza è la prudenza più stagnante e dietro la collina c’è il sole…” Canta un Battisti d’annata in sottofondo.
“Vorrei una bicicletta rosa”. Chiede la mia nipotina come premio per la sua brillante pagella. “Nuova e rosa! Come quella di Gemma”. “Non se ne parla”. Replica immediatamente mia sorella. “Costa tantissimo e da noi la bici si usa solo un paio di mesi l’anno e nel piazzale intorno casa. Tutt’al più una bici usata. E poi magari scegli qualcos’altro.” Ma devi comprargliela adesso che siamo in estate. Quando vuoi comprargliela a novembre?” Intervengo io, mentre mia nipote mi guarda con l’occhio di chi ha trovato un fervido alleato. “Guardo su internet magari trovo qualcosa” aggiungo per rafforzare la complicità. Su internet le bici usate ci sono ma sono lontane e non le spediscono. “Devi comprargliela nuova” dico a mia sorella “ se la merita”. L’opera di convincimento va a buon fine. Prima di andare ad acquistarla, presso un grande centro commerciale di articoli sportivi, mi fermo in un negozio- mercatino dell’usato giù in città. “ E’ arrivata stamattina. Un vero affare. Se veniva stasera non la trovava più”. Mi dice prontamente il commesso.
Riprendo la strada dei monti con la bici in macchina. Iris si chiama. Lei ha un nome certo. Penso al piacere del vento nei capelli, della libertà che si assapora pedalando, correndo, pattinando, andando in motorino. Andando. “Quando desideri ardentemente qualcosa e lo fai con amore scevro da bisogno o da possesso, l’universo intero si muove nella tua direzione”. Questo direbbe il vecchio saggio. Sorrido a me, a te, alla vita, mentre guardo Iris dallo specchietto retrovisore. Non dimentichiamo mai quel vento tra i capelli. Non trascuriamolo. Non soffochiamolo. Mai.

A lezione di sopravvivenza

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Certe malinconie non si addicono al mese di maggio. Soprattutto quando c’è il sole. A novembre sono già più accettabili ma, a maggio no. A novembre puoi venire a sapere che un amico se n’è andato. Venirlo a sapere all’improvviso, quasi per caso. Ma a maggio e soprattutto quando c’è il sole, sembra impossibile. Perché poi la malinconie non viaggiano mai sole. Sembra quasi necessario che arrivata una ne chiami a raccolta altre tre o quattro per prendere il tè nel salotto di casa tua. Allora guardi il sole di maggio che illumina il crinale e ti metti gli scarponi. Tanto peggio di così non starai.
Roma, binario 26. C’eravamo dati incontro lì una trentina di persone che mica si conoscevano. Facevano solo parte di un club. I club dei poeti. Che già solo da questi presupposti doveva far sorridere. Capita che quando uno s’incontra al binario 26 e soprattutto, quando incontra un altro poeta, capita che nasca l’amore. E capita anche che qualcuno lasci la sua terra d’origine, di mare e di zagare per il lontanissimo nord. E capita che tutto questo lo faccia a sessant’anni. “Come sono felice, come sono felice.” Mi dicevi quando ci sentivamo al telefono. ” Sono felice perché per la prima volta con una donna che amo mi sento libero”. La valigia piena di libri, chiacchiere intorno ad un tavolo e quella mostra di arte contemporanea dove abbiamo riso dall’inizio alla fine, perché noi mica siamo esperti di arte contemporanea ma scansare una stanza piena di scarafaggi in plastica è dura anche per i non artisti. “E’ stato tutto veloce. Un paio di mesi. Avrei dovuto chiamarti prima, ma non ce la facevo. E poi lui soffriva. Soffriva tanto, fino a quando non ha intrapreso la terapia del dolore. “Sai che ci siamo anche sposati? Lì sul letto d’ospedale, davanti al cappellano che in fretta e furia ha fatto tutti i fogli”. E mentre lo dici la tua voce diventa un’onda di bene che mi arriva tutta. Mentre sono io che ancora non sono guarita da tutte queste morti. Perché poi si guarirà mai da questi dolori, da queste mancanze ? “Conosci, poi ti affezioni, poi si creano i legami. Dovresti circondarti di poche persone, nemmeno di un gatto, così quando vengono mancare è più facile e ciò avviene con meno frequenza”. Mi direbbe l’Alfonsina. Cammino sul sentiero che porta al crinale e penso che no. Cosa cambia. Cosa cambia per chi si commuove per morti che sono lontane, viste allo schermo della televisione o lette in un libro.
Scendo a valle e lo zaino è un po’ più leggero. Rivedo il tuo sorriso sornione mentre saltellavamo attenti a non pestare gli scarafaggi artistici. “Una birra. Un birra fredda”. Chiedo alla barista del chioschetto dove ho lasciato l’auto. Gli occhi mi cadono su un volantino. C’è la foto in bianco e nero di un cane. Si chiama Askina. E’stato perso giorni addietro. E’ vecchio e non ci vede bene aggiunge una scritta. “L’avranno ritrovata?” Mi chiedo come chi affamato di buone notizie rovista nel bidone della caritas. Senza nemmeno pensarci compongo il numero scritto a caratteri cubitali sotto la foto. “ Mi scusi…senta…volevo sapere di Askina” “Ah! sì. L’abbiamo ritrovata ieri. Grazie al cielo ci hanno avvertiti e subito siamo andati a prenderla. Erano già passati dieci giorni e quasi non ci speravamo più”. Ciao Salvo. Ciao anima bella. La vita per noi cani persi continua.

Dentro gli occhi

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Mi sono alzata stamattina e mi sono guardata negli occhi. Mentre mi preparavo per uscire mi sono fermata davanti allo specchio del bagno. Forse stavo per passare la matita, un rigo sottile, o forse no ed ho guardato bene i miei occhi in profondità. Cosa c’era oltre. Anelli di un tronco da contare e ricontare. Un piccolo foro per passarci dentro carponi ed entrare nei sogni. Una luce. Un’ombra. Una piega. Una lacrima pronta. Li ho guardati bene i miei occhi. Dritti. Senza paura, né vergogna. Ed ho pensato a quante cose hanno visto. A quante cose non hanno visto. A quante cose non vedranno mai. A quante cose non vedranno più. Dove sono finiti i tuoi? Erano verdi. Di quel verde che non ha confini. Ed i tuoi, celeste leggero per viaggi in solitario? Ed i tuoi? Dove sono finiti i tuoi che ridevano prima che lo facesse il mondo. Due bottoni preziosi senza scampo. Dove sono? Dove sono i tuoi occhi, grandi e dolci da confonderli con la notte ed i tuoi, un porto sicuro dove passarla? Dove siete? Continuate a guardarmi da lontano. A proteggermi. A vedere quello che io adesso non riesco a vedere. Come un terzo occhio, una lucina sulla fronte, il faro della Meloria. Mentre sui miei passo un rigo sottile di matita tra quello che c’era e che adesso non c’è più.

Attitudini

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E’ bello vedere il display del telefono illuminarsi ad intermittenza e leggere quel nome. A volte rimango immobile per qualche secondo a sorridere. A sorridere a quel nome. Come fosse un gioco di piacere. Un sapore conosciuto da pregustare. Un attimo nel quale rimanere.“Vieni a camminare con noi domani?” “Mi piacerebbe ma non posso. Sono tutto il giorno da babbo. La badante ha il giorno libero…” E mentre parlo ripercorro mentalmente il sentiero fatto l’altro giorno. Quello che porta sul crinale dove c’è solo pace, ma prima, per un bel pezzo, passa dentro ad un bosco. Un bosco di faggi. E lì, mentre la salita si faceva dura ne ho visti uno, uno precisamente, (che ci sarà sempre stato ma non ricordo di averci mai fatto caso prima) con la corteccia incisa. Due iniziali, una data, Rimini. Ecco, se proprio dovete scrivere i vostri nomi nel creato, sarebbe più bello e onesto scriverli sulla sabbia. Ma non perché siete di Rimini, solo per custodire l’essenza di un nome dentro. Dentro le cose.
Babbo, babbino che tra pochi giorni compirai ottantotto anni, cammini poco e male, che piano, piano stai davvero invecchiando, anche se hai sempre quella battuta pronta che mi regala un sorriso. Babbo che quando ti metto a letto ti preparo come un bambino. Ormai non c’è più vergogna o timidezza tra di noi. Metto il pannolone, due gocce di collirio, rimbocco le coperte e poi sposto il mobiletto affinché rigirandoti nella notte non tu cada come è già successo. “ Buona notte babbo” ti dico sottovoce prima di spegnere la luce. “E buongiorno per domani.” Rispondi tu sornione. Mentre io vorrei solo che quel domani non avesse mai fine.

Nascite e rinascite

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Lo so, lo so, non è bello accoglierti con il fazzoletto in mano, gli occhi lucidi e rossi e un quantitativo imprecisato di starnuti. Ma, mia cara primavera, da molto tempo ormai questo è l’effetto che mi regali. Non preoccuparti, io ti voglio bene lo stesso. Voglio bene al tuo cielo azzurro, alle giornate che si allungano, alle rondini che tornano, agli uccellini che cinguettano. Voglio bene anche ai gatti del vicinato che hanno scelto il mio giardino come luogo d’incontro amoroso. All’alba. Come tutti i veri inizi. E poco importa alla primavera se i miei due gatti, maschio e femmina, sono stati sterilizzati. E nemmeno agli altri gatti. Forse ciò che riusciamo a bloccare sono solo le conseguenze ma l’aria contagia lo stesso.
Hai voglia a tener calmo, a tener fermo. Lei non vuole sentire ragioni E tutto ciò che è stato buono, zitto, inerme, durante l’inverno, all’improvviso si sveglia. “…Quel verde che spacca la scorza, eppure stanotte non c’era”. Recitano i versi di una poesia di Quasimodo. E’ inutile. Non ci si fa. E lo dico sorridendo. Perché a me questa benedetta primavera sta simpatica. Anche se freni, freni, blocchi, pensi, pensi, pensi. Perché mi stanno simpatiche le persone libere. Perché non c’è libertà più grande della verità. “ Ma in fondo, poi, non è questo vivere, Sandra?” Mi dicevi l’altra sera con tutta la tua naturalezza. 21 marzo, primo giorno di primavera. Capodanno della natura. Inizia da qui il ciclo della cose. Da poco è stata istituita il 21 marzo la giornata mondiale della poesia. E cosa c’è dentro una poesia se non l’aria della primavera? Quell’aria pulita, un po’ ingenua, un po’ sbarazzina, un po’ sognante di chi crede che nell’inizio di qualcosa c’è sempre un mistero, una magia che non possiamo tradire, né ignorare.

Testa tra le nuvole

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Bisogna voler bene alle donne distratte. Lo dico subito così chi è sempre con i piedi per terra, preciso, ordinato, metodico, chiude subito il post come se fosse l’uscio che dà su di una stanza disordinata. Senza troppo rammarico. La distrazione, per le persone distratte, è qualcosa che reca conseguenze negative solo quando arriva alla coscienza. Altrimenti, di per sé è innocua e state tranquilli, nemmeno contagiosa. Quasi sempre sono gli altri a indicarti con varie sottolineature, di altrettanti vari colori, il buco generato dalla tua distrazione. Quando arrivano a dirti: “sei sempre la solita.” Vuol dire che l’amore è finito. Il mio grado di distrazione, pur essendo ormai conclamato, non è allo stadio terminale che secondo il ministero dell’ordine pubblico va da: “lascia il gas aperto” a “ lascia il cane in auto sotto il sole”. Quindi i danni sono ancora abbastanza tollerabili dalla comunità civile, dall’etica e dall’ordine morale delle cose. Tralasciando quella volta che sono dovuta tornare in fretta e furia al supermercato prima che chiudesse perché avevo lasciato la macchina lontana e le borse della spesa erano pesanti, ma delle borse della spesa me ne sono ricordata quando sono arrivata a casa, cioè, dopo una decina di chilometri. Quella volta che ho cercato la mia macchina per tutto il parcheggio del centro commerciale arrivando alla conclusione di: “me l’hanno rubata” (che per dirlo del mio catorcio ci vuole molto coraggio) mentre invece era nell’altro parcheggio. Uguale, identico, spiccicato ma nel quale si accedeva da un’entrata opposta e parallela. Quella volta che ti ho detto: “l’avrai perso o lasciato da qualche parte“. Riferito al tuo bellissimo maglione arancio, quando sapevo benissimo che l’asciugatrice a novanta gradi l’aveva reso mignon (ma io ero sicura di averla messa a sessanta!) O quella volta…
Le nuove tecnologie di certo non aiutano, anzi, talvolta rigirano il coltello nella piaga distratta. L’altro giorno, per esempio, ho mandato un messaggio alla persona sbagliata. E non era proprio il messaggino che volevo mandare a quella persona anche se era un messaggino ‘su’ quella persona. Se ci fossero state ancora la vecchia carta e penna di sicuro avrei trascritto l’indirizzo giusto. E poi volevo dirti, il mondo potrà continuare a girare senza sentirsi troppo in colpa per non aver onorato la mia intelligenza che un test super serissimo aveva quantificato in “intelligenza eccezionalmente superiore alla media” affibbiandomi un bel 139 di Q.I. E’ vero, la mia autostima era arrivata alle stelle e per un po’ di tempo ha avuto il suo attimo di gloria. Ma per poco. Cioè fino a quando, mostrando il test alla mia collega, mi sono accorta che in alto c’è una finestrella nella quale bisogna mettere l’età. Non l’avevo toccato. La mia era rimasta 0-7 anni. Decretandomi nei fatti, per quel serissimo test, una specie di Mozart contemporaneo. Il mio Q.I è 134. Un punteggio ragionevole ma soprattutto, un punteggio che dovrebbe contare il doppio. Specialmente pensando allo sforzo di quei neuroni che devono tenere a bada la mia testa tra le nuvole…

Coraggio

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C’è sempre una filosofia per la mancanza di coraggio.
Albert Camus

Questa bella citazione l’ho trovata sulla prima pagina dell’ultimo libro di Fabio Volo. Ora voi direte che ci vuole coraggio a leggere i libri di Fabio Volo e io vi risponderò che per l’attesa di un’ora alla lavanderia automatica vanno benissimo. Con buona pace del coraggio. Ci vuole coraggio a sorridere malgrado la vita ti abbia portato via le persone più care. Ci vuole coraggio a superare la tristezza, il dolore e il vuoto che hanno lasciato. Ci vuole coraggio a difendere le proprie idee, a voler cercare la chiarezza, a fare il primo passo, a dare un nome alle cose.
Quando sul tram tutti ci guardavano perché eravamo io, te e due ragazzi disabili uno dei quali si faceva notare e tu hai detto ad una signora che lo fissava con gli occhi incollati: “Scusi, ma cosa c’è da guardare?” Ci vuole coraggio quando la collega despota e più temuta della scuola impreca sul portone all’uscita degli alunni: “Io tutti questi albanesi li butterei in Arno!” Perché il babbo di un bimbo tardava a venire a prenderlo e lei si era spazientita. Ci vuole coraggio quando al mio ti voglio bene rispondevi sempre, anch’io. Magari lo scrivevi ma dirlo è un’altra cosa. Ma una volte l’hai detto. Tu per primo. Secondo me da quella volta hai rotto il ghiaccio e ora lo dici sempre senza paura. A volte anche per primo. Ci vuole coraggio a sapere che da quella sala operatoria magari nemmeno esci viva perché l’operazione è grossa e noi di corsa giù dai monti a guidare come matti perché ci aspettavano. Ci aspettavano per un saluto e un sorriso. Ci vuole coraggio a vivere. A vivere pianamente. Ci vuole coraggio a morire. A morire senza farlo pesare agli altri, senza dir loro che la morte sta arrivando. Ci vuole coraggio a compiere cinquant’anni, guardarsi allo specchio e farsi un sorriso. Perché sì, cinquant’anni ci sono, ma c’è chi li porta peggio e magari era così a trenta. Ci vuole coraggio a vivere il presente che è l’unica cosa che abbiamo senza rifugiarsi nei ricordi o nei progetti che ancora non ci sono. Io non so se ci vuole coraggio anche ad amare o se quando si ama tutto viene naturale, ma di sicuro so che il coraggio è una forma d’amore. Luminosa, con i capelli al vento e un fazzoletto rosso al collo.

“…La matematica non sarà mai il mio mestieeere…”

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Anche la matematica ha un’anima nascosta tra i numeri. Non ci credete? Va bene. Ripassiamo le quattro operazioni.
Addizione: Di solito è quella più facile. Si può fare anche a mente. Io più te, uguale: noi. Un risultato diverso da entrambi, a meno che uno dei due non valga zero. Io sono stata fortunata perché zero finora non l’ho mai incontrato. L’addizione mi è simpatica perché aggiunge, porta qualcosa di nuovo, qualcosa in più che spinge a conoscere. Forse per qualcuno quel “più” tra due numeri sembra una croce. A me no. Ed è bello poter pensare di mettere tanti più in fila per dare un unico risultato. E poi, riporti, riporti, riporti. Io vorrei che il riporto fosse sempre fatto di gioia, di cose nuove, di cose belle. Magari contandolo sulle dita della mano, o quando si è bravi tenendolo a mente, perché scriverlo in alto si fa solo da bimbi quando si crede alle favole ma poi si smette.
Sottrazione: Quando ho incontrato persone sottrazione me ne sono accorta solo alla fine. Quando il resto è stato un numero vicino allo zero. Quando prestavi, prestavi, prestavi… Prestavi tempo, parole, attenzioni, ma i conti non tornavano. La sottrazione toglie. Toglie energia, piacere, sorrisi. Anche se a volte, giustamente, toglie marciume e false speranze. Nei problemi c’è sempre una mamma che rompe le uova, uccelli che volano via, caramelle mangiate e fiori appassiti. Quanti ne restano? E’ la domanda finale. A volte dopo una sottrazione rimane solo una gran carneficina.
Moltiplicazione: Bisogna saperle bene a memoria. Le tabelline. Altrimenti le moltiplicazioni non le fai. Allora, gara di tabelline, tombola di tabelline, tabelline canterine. Allenarsi, allenarsi, allenarsi. Con il “per” si arriva subito ai grandi numeri. Ha un che di miracoloso, di abbondanza. Ci vuole dimestichezza con le moltiplicazioni. Tutto prolifica rapidamente. Nel bene e nel male. Un’accelerazione prima quarta in pochi secondi. Con il per non ci si sbaglia: si vola sulla luna. Ma solo se si sanno bene le tabelline.
Divisione: Scoglio di molti studenti che s’incastrano tra i due puntini come una trota obesa. Eppure dividere aiuta, conforta, fa sentire meno soli. A volte però dividere è sinonimo di separare e le separazioni non sono mai indolori. “Ne vuoi metà?” Con la gomma Brooklyn in mano, piatta e lunga che si divideva facilmente. “Incontriamoci a metà strada”. “Paghiamo a mezzo”. A metà c’è sempre un incontro. Un incontro vero. Le divisioni sono difficili e impegnative ma una volta imparate danno tanta soddisfazione.

La maledizione di Tutanmodem e la wireless stregata

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Non dovrebbero mai farvi un’offerta vantaggiosa quando le giornate intenettiane non girano bene. Potrebbe sembrarvi estremamente vantaggiosa. A me è successo e ne sto ancora pagando le vantaggiosissime conseguenze. Un mese fa, in pieno delle mia facoltà mentali, ho trasferito la mia linea internet e telefonica ad un altro operatore, iniziando così una serie di vicissitudini che perdurano tuttora. C’è da dire, in tutta onestà, che le mie conoscenze in merito al mondo telematico sono quasi nulle. L’unica cosa che ricordo di aver detto alla gentilissima signorina Ambra, Federica o Carlotta che in casa mia il cellulare trova la linea soltanto vicino alla porta. “Ma signora!” Ha esclamato con aria snob la donzella, zittendo immediatamente l’ignorante telematica che in me. “Cosa c’entra il cellulare con il modem!” E invece c’entra, c’entra. C’entra, perché adesso quella station è parcheggiata vicino alla porta, viaggia poco e male ma soprattutto, quando vuole lei. Una piccola stazione di periferia per capirsi. Di quelle che vedono transitare un treno al giorno. Forse due.
In compenso viaggiano le mie telefonate in un crescendo pavarottiano. Le prime cortesi e ragionevoli, quelle successive alterate, poi sempre più irritate riguardo al contratto trappola nel quale sono caduta. Di solito, chi come me non ci capisce niente, si rivolge a chiunque nella cerchia delle amicizie gli sembri avere qualche conoscenza in più pensando che, sommando due mezze ignoranze in materia, si abbia come risultato una competenza elementare. Ecco. Non fatelo. Potreste ritrovarvi a pulire il cesso di quella famosa stazione. Per fortuna nel mio peregrinare alla fine sono giunta a San Daniele. San Daniele è preparatissimo e si prodiga in mille aiuti e consigli. E’ dotato di santissimi poteri anche a distanza nel risolvere qualsiasi problema si presenti. Ma come tutti i santi va disturbato solo quando è strettamente necessario. L’altra sera gli ho ripetuto la giaculatoria della scaletta dell’unità di misura byte, megabyte, gigabyte che mi aveva insegnato il giorno prima per farmi un pochino innamorare della materia, ma ancora non so se ha avuto effetto.
Di solito poi accade che quando uno passa dall’operatore X a quello Y, fa il salto e passa. Invece no. Sono stata ancora più fortunata. Forse la mia linea ha preso la rincorsa, era pronta per il salto ma poi ci ha ripensato. Fatto sta che il telefono è di là, la chiavetta della stazione è di là e la linea internet è ancora di qua. Amici cari. Questo per dirvi la voce intenettiana di penna bianca è appesa ad un filo. E non quello del telefono perché il mio cellulare telefona e basta. Ma a quello del tempo, delle connessioni a casa di amici, delle paturnie umorali della station.
Per esempio, adesso sto inviando questo post da un internet point. La cosa potrebbe sembrare perfino romantica come se lo facessi da un telegrafo remoto della Siberia. Ma io ho voglia della noiosa e rassicurante monotonia del ragioniere che apre la sua posta ogni mattina e, davanti ad un buon caffè, comincia a leggere le mail.

Viaggi

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Cosa resta di un viaggio breve e intenso? A guardare la mia piccola valigia blu: panni sporchi, un libro nuovo, due tazze di vetro trasparente ricevute in regalo. A guardare dentro i miei occhi molto di più. Tutte le strade portano a Roma. Anche quelle che partono da lontano. Camminare per strade sconosciute. Incontrare persone conosciute. Incontrare persone conosciute solo a parole. Cosa resta nell’aria dopo un incontro, un abbraccio, una sera passata insieme a ridere e parlare? Forse può rispondere solo quel gatto un po’ temerario che ci dà il benvenuto sfidando il traffico cittadino. “Promettimi…” Non so fare quel genere di promesse, ma so che basta lasciare fluire la vita per onorare certe promesse. So che il tempo è una variabile secondaria quando si parla di affinità. So che mi emoziono ancora a vedere un’alba, soprattutto quando ho una valigia in mano e un biglietto di viaggio perso in qualche tasca.
“Arrivata. Sono stata bene. Sto bene. Grazie di tutto”. Se esistesse ancora il telegrafo basterebbero queste parole. Se esistessero le anime nemmeno queste. Parole…Viaggiare…
No ne so trovare altre meno banali di “bello”. Potrei reiterarlo come fanno i bambini per rafforzarne il contenuto.”Bello, bello, bello”. Parole. Chissà con quale parola Marco Polo iniziò il suo Milione. Chissà con quale lo concluse. Se un velo di tristezza lo avvolse quando tornò a casa, se ne progettò subito un altro, se anche lui aveva una scatola piena di mappe geografiche e cartine da aprire sul futuro e sognare.