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“…La matematica non sarà mai il mio mestieeere…”

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Anche la matematica ha un’anima nascosta tra i numeri. Non ci credete? Va bene. Ripassiamo le quattro operazioni.
Addizione: Di solito è quella più facile. Si può fare anche a mente. Io più te, uguale: noi. Un risultato diverso da entrambi, a meno che uno dei due non valga zero. Io sono stata fortunata perché zero finora non l’ho mai incontrato. L’addizione mi è simpatica perché aggiunge, porta qualcosa di nuovo, qualcosa in più che spinge a conoscere. Forse per qualcuno quel “più” tra due numeri sembra una croce. A me no. Ed è bello poter pensare di mettere tanti più in fila per dare un unico risultato. E poi, riporti, riporti, riporti. Io vorrei che il riporto fosse sempre fatto di gioia, di cose nuove, di cose belle. Magari contandolo sulle dita della mano, o quando si è bravi tenendolo a mente, perché scriverlo in alto si fa solo da bimbi quando si crede alle favole ma poi si smette.
Sottrazione: Quando ho incontrato persone sottrazione me ne sono accorta solo alla fine. Quando il resto è stato un numero vicino allo zero. Quando prestavi, prestavi, prestavi… Prestavi tempo, parole, attenzioni, ma i conti non tornavano. La sottrazione toglie. Toglie energia, piacere, sorrisi. Anche se a volte, giustamente, toglie marciume e false speranze. Nei problemi c’è sempre una mamma che rompe le uova, uccelli che volano via, caramelle mangiate e fiori appassiti. Quanti ne restano? E’ la domanda finale. A volte dopo una sottrazione rimane solo una gran carneficina.
Moltiplicazione: Bisogna saperle bene a memoria. Le tabelline. Altrimenti le moltiplicazioni non le fai. Allora, gara di tabelline, tombola di tabelline, tabelline canterine. Allenarsi, allenarsi, allenarsi. Con il “per” si arriva subito ai grandi numeri. Ha un che di miracoloso, di abbondanza. Ci vuole dimestichezza con le moltiplicazioni. Tutto prolifica rapidamente. Nel bene e nel male. Un’accelerazione prima quarta in pochi secondi. Con il per non ci si sbaglia: si vola sulla luna. Ma solo se si sanno bene le tabelline.
Divisione: Scoglio di molti studenti che s’incastrano tra i due puntini come una trota obesa. Eppure dividere aiuta, conforta, fa sentire meno soli. A volte però dividere è sinonimo di separare e le separazioni non sono mai indolori. “Ne vuoi metà?” Con la gomma Brooklyn in mano, piatta e lunga che si divideva facilmente. “Incontriamoci a metà strada”. “Paghiamo a mezzo”. A metà c’è sempre un incontro. Un incontro vero. Le divisioni sono difficili e impegnative ma una volta imparate danno tanta soddisfazione.

Di viaggi e di cose

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Erano nel sedile accanto al mio. Sul treno. Una coppia dall’età indefinita, grandi direi. Grandi per dire che avevano i capelli bianchi. Lui indossava un cappello di paglia piuttosto mal messo e una camicia di lino assai stropicciata anche se dice sia il suo bello. Lei, seduta di fronte, aveva un paio di pantaloncini corti che mettevano in bella mostra gli innumerevoli pinzi di zanzara che le avevano martoriato le gambe. Inglesi, americani, francesi… E’ più facile definirli stranieri. Mia madre avrebbe aggiunto “non gliene importa nulla di come son vestiti. Fanno proprio bene. Fanno il loro comodo. Bon per loro!” Ad un certo punto, appena il treno è giunto nelle vicinanze della stazione, ho visto i loro occhi guardarsi luminosi alla vista del cartello “Firenze S.M.N”. Forse un loro sogno stava per realizzarsi. Forse Firenze era la meta di un viaggio desiderato da tempo. E mi sono incantata di fronte alla loro gioia quasi fossi testimone di un piccolo miracolo. Ed ho pensato che fra le cose più belle da fare con qualcuno che si ama è fare un viaggio insieme. Arrivare in un luogo sconosciuto come due pionieri e farsi contagiare dal nuovo. Farlo insieme, per curiosità, per scoperta, per gioco. Essere due conosciuti in una terra sconosciuta. Ho immaginato vederli camminare per Firenze mano nella mano, a volte occhi negli occhi, a darsi conferme, rimandi e bellezze.
Quando vai in una città dove hai vissuto venti anni e ci vai come turista ti prendi solo il bello. Ti ricordi solo il bello. Questo faccio io. Così, uscita dalla stazione, mi sono diretta in Oltrarno a piedi. Via dell’Albero. Sì, sì, si chiamava proprio così. Una viuzza stretta dove di certo non convergono gli itinerari turistici. Era lì in fondo. Quel bugigattolo di locale buio e fumoso dove studenti e forse anche dopo passavamo il sabato sera. Ad ascoltare musica dal vivo. Chitarra, tastiera, voce a batteria. Questa la formazione completa. A volte solo chitarra e voce. Dipende da chi c’era. Ma adesso dov’è? Stento a ricordare bene dove fosse di preciso, quale fosse il numero civico. Quello che capisco è che di sicuro non c’è più. Soppiantato da un internet point, forse da un ristorante, forse da quel negozio cinese. “ E’ dura campare di musica” mi hai detto l’altra sera al telefono “è dura campare di sogni” avrei voluto risponderti. Ricordo che quando entravo nel locale, se non l’avevano già suonata, visto che era quasi sempre parte del repertorio, dopo un po’ andavo a richiedere una canzone. Una canzone di Vecchioni. Una di quelle meno conosciute e che avevo sentito proprio lì la prima volta. S’intitola “Pesci nelle orecchie”. Alla fine della canzone la chitarra si ferma improvvisamente, poi solo voce“…Amore non è vero, amore t’amo, amore ascoltami. Quante volte avrei voluto dirti, sai: se non ci fossi tu…poi non l’ho detto mai. Ta-ta-ta tatataratata” e riparte la chitarra.

Storia del cane Pippo, di Gemma e delle innumerevoli strade che può prendere la vita

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Fra le tante storie che Agnese ama raccontare nelle serate di veglia, c’è quella del cane Pippo, di Gemma e delle tante strade che può prendere la vita. Nessuno ha ben capito se quella sia una storia vera oppure, sia frutto della fantasia che l’anziana donna ha coltivato negli anni. Gemma, una dei protagonisti della storia, è una bambina di nove anni che vive con la sua famiglia nella bella casa colonica ai margini del paese. Un giorno Eugenio, il padre di Gemma. andò nel bosco a cercare funghi. Ma più che trovar funghi fece uno strano incontro. In mezzo alla stradina ghiaiosa che portava nel bosco, barcollante per la fame, la sete e il troppo sole che stava preannunciando l’arrivo di una torrida estate, vide un cane. Quello che ricordava un cane, sarebbe meglio dire. Il povero cristo infatti era spelacchiato e malconcio. Aveva attorno al collo una corda di plastica sfilacciata che evidentemente l’aveva tenuto legato a qualcosa di fermo e dal quale tira, tira, era riuscito a staccarsi. Il cane si fece avvicinare un po’ guardingo ma complice la spossatezza non fece resistenza. Eugenio vedendolo da vicino si accorse che intorno al collo, la corda tirata forse con insistenza e a lungo, aveva generato una profonda ferita che aveva rimosso il pelo e lasciato una brutta infezione in più parti. Eugenio decise così di prendere il cane e portarlo a casa. Aveva un bel giardino e soprattutto una figlia che avrebbe accolto con piacere la sorpresa. Infatti Gemma fu felicissima di questo inaspettato regalo, di quest’incontro.
I primi giorni servirono al cane, che nel frattempo aveva anche ricevuto il nome di Pippo, a riprendersi nel corpo e nello spirito. Una sera inaspettatamente abbaiò così forte che quasi mise paura, ma soprattutto più che passava il tempo, più veniva fuori il suo vero temperamento. Secondo il veterinario, Pippo poteva essere l’incrocio tra un pastore tedesco ed un husky e se del primo aveva ereditato le qualità migliori del secondo solo imprevedibilità e cocciutaggine. All’incirca poteva avere due anni e per questo era sempre un giocherellone. Non era troppo disciplinato e rispondeva ai comandi solo quando vedeva un bastone. Piano, piano, Pippo aveva ripreso fiducia nel genere umano, merito soprattutto di Gemma che con dolcezza e premura l’aveva avvicinato. Tutto procedeva nel migliore dei modi fin quando la bella armonia che si era creata precipitò senza preavviso. Gemme e Pippo stavano giocando nel campo intorno casa quando la piccola inavvertitamente gli toccò la ferita sul collo che ancora non era perfettamente guarita. Fu un attimo. Pippo girò la testa e d’istinto le azzannò il braccio. Gemma corse in casa piangendo e urlando per il dolore e vista la ferita fu subito portata al Pronto Soccorso.
Mentre guidava, tornando dall’Ospedale, Eugenio aveva ben chiaro in mente cosa avrebbe fatto: avrebbe riportato Pippo nel bosco. L‘avrebbe disperso lì. Lì proprio dove l’aveva trovato. Quando un cane morde il proprio padrone bisogna liberarsene, ripeteva come un mantra. Questa convinzione fu avvallata dal fatto che, dopo poche ore, trovò nella legnaia Gemma e Pippo sdraiati sul pavimento con gli occhi di lei a pochi centimetri dal muso del cane. “Ci siamo parlati” disse Gemma come se fosse la cosa più normale. “Mi ha chiesto scusa”. Ecco. Non solo quel cane le aveva quasi lacerato un tendine ma le stava facendo perdere il lume della ragione. A quel punto Eugenio venne via dalla legnaia su tutte le furie aspettando solo che venisse notte per metter in atto il suo piano. Appena Gemma si addormentò, prese il cane e senza un attimo di esitazione o di pietà lo lasciò nel bosco. Naturalmente il giorno dopo a Gemma fu raccontato che Pippo, dal carattere difficile e poco comprensibile, se ne era andato.
Non c’era notte che Gemma non piangesse in silenzio, o mattino nel quale non trovandolo festoso alla porta ne sentisse la mancanza. Il babbo aveva risolto un problema e anche la mamma non sentì affatto la mancanza di quel terremoto peloso, come lo chiamava lei. Il suo giardino poteva finalmente respirare, la sua casa fintamente casual rimanere in ordine e il portone di castagno all’ingresso non essere più graffiato dalle unghie di Pippo. Quando voleva entrare era tremendo! Pippo intanto vagava nel bosco cercando con il fiuto tracce odorose che il tragitto in auto non avevano lasciato. Camminava da giorni senza aver mangiato un boccone. Per fortuna riusciva a bere, quello sì, perché ogni tanto trovava un ruscello ma le forze stavano scemando.
A questo punto della storia Agnese si fermava sempre. Diceva che la storia non aveva solo un finale ma poteva averne tanti e tutti erano veri. Diceva che ogni momento aveva il suo finale e non era mai lo stesso. Una volta concluse la storia raccontando che Pippo, vagando per giorni senza mangiare, diventato lo scheletro di se stesso si accasciò ai piedi di un grande faggio e lì dette il suo ultimo respiro. Un’ altra, disse che Pippo fu trovato da un cacciatore che lo portò a casa sua e lo mise in un recinto insieme ad altri trenta cani. Un’ altra ancora disse che Gemma, aspettando di vederlo tornare, perse il sorriso, l’appetito e la voce. Nemmeno i dieci cani di peluche e i due pesci rossi che il padre le aveva prontamente comprato per colmare il vuoto erano serviti a consolarla e si chiuse sempre più in se stessa. Un’altra volta ancora disse che Pippo vagò nel bosco per tanto tempo. Nessuno sa dire precisamente per quanto. Le creature del bosco gli dettero una mano per come potevano e quelle del cielo la forza e la speranza per non mollare. Proprio mentre cominciava a pensare che ogni sforzo fosse stato vano, intravide in lontananza la luce della bella casa colonica della famiglia Rossi. Con fatica arrivò al cancello e poi cadde a terra esausto. Gemma, che non aveva mai smesso di aspettarlo, lo vide dalla finestra e gli corse incontro con la felicità nel cuore. Ci volle tempo perché Pippo riprendesse fiducia negli esseri umani. Lo stesso tempo che ci volle a Gemma per passare sopra a quell’incomprensibile fuga (visto che nessuno le disse mai la verità) ma adesso corrono felici e liberi nel campo dietro casa.
L’altra sera, nella notte del solstizio di estate con la luna piena in alto che faceva da guardiana, Agnese raccontò questa storia nell’Aia Grande. Io non c’ero ma ho saputo che giunto il momento di scegliere il finale Agnese guardò le stelle e poi cominciò…

Lezione di scienze

coccinelle

Chissà se anche loro hanno stanno consumando con gli occhi quelle pagine, quasi a volerne imprimere nella retina ogni figura, ogni dettaglio, con la curiosità tipica dei bambini. La mia amica Susi ed io lo facemmo di sicuro. Sua madre la aveva regalato un libro intitolato “come nascono i bambini”. Il libro aveva semplici spiegazioni che noi a forza di guardarlo imparammo subito a memoria, ma soprattutto, una serie di illustrazioni che ci illuminarono più delle parole. Le illustrazioni erano fatte con ritagli di carta come fosse un collage. Partivano dalla classica ape sul fiore e terminavano con la testa di un bambino che usciva dalle gambe aperte di una donna. Anche se è passato tantissimo tempo da allora e quel libro non mi è più ricapitato tra le mani, mi sembra di sfogliarlo adesso. Ciò che mi aveva detto mia madre sull’argomento era quasi niente. Perfino quando frugando in bagno avevo trovato un assorbente ed io, molto interessate alle dimensioni decisi di adottarlo come pannolone per la mia bambola, prese la palla al balzo per raccontarmi il suo vero uso. Vabbè, forse erano altri tempi. A riempire il vuoto con notizie più o meno precise e attendibili ci pensarono le amiche, la mia cugina più grande, ma soprattutto, la rubrica “l’esperto risponde” del giornalino ‘Cioè’.
Adesso ci sono io dall’altra parte. Dopo sistema scheletrico, muscolare, circolatorio e quant’altro ci sia nel corpo umano, siamo arrivati al giorno del tanto atteso: “apparato riproduttore”. In classe c’è una sorta di religioso silenzio. Mentre parlo sono attentissimi. Qualcuno accenna un sorrisetto quando pronuncio le parole “riproduzione sessuata”. E’ il sess iniziale che provoca ilarità anche se per sdrammatizzare dico che nei moduli la parola sesso si barra per distinguere maschio da femmina.
Voglio essere chiara con loro ma, nello stesso tempo, trasmettere che l’unione di uno spermatozoo con un ovulo genera una nuova vita con tutto il mistero, la poesia e l’amore che questo gesto comporta. Sono attenti. Vogliono capire e io non mi sottraggo a questo. Nemmeno mi nascondo dietro le parole. Nemmeno dietro i termini scientifici che connotano le varie parti dell’apparato riproduttivo traducendoli spesso nel gergo comune. Qualcuno anche qui accenna ad un sorrisino, altri annuiscono come per dire: adesso è tutto più chiaro.
La nuova vita nasce dall’incontro tra uno spermatozoo e l’ovulo. Questo l’ho capito” mi dice Camilla prontamente” “ma se lo spermatozoo è nel corpo del maschio e l’ovulo in quello della femmina come fanno ad incontrarsi?” Bella domanda, sì, proprio una bella domanda, alla quale dover trovare una bella risposta.
Rispondere “per amore” mi sembrava riduttivo e, per certi versi, anche fuorviante (ripenso alle dicerie di chi pensava che bastasse un bacio per rimanere incinta). Così cerco di dare a quell’amore una realtà concreta, descrivere un atto senza togliere la poesia.
“Ehi! Dove dovrei metterlo il mio coso?” Interviene Giacomo alquanto perplesso “Ma non ci penso proprio!”
“Non devi niente. Soprattutto adesso. Questo è il modo in cui esso avviene. Ma bisogna essere grandi per farlo.” Rispondo io.
“Grandi quanto? Basta saper guidare il motorino oppure bisogna saper guidare la macchina?” Incalza Mirco. “ Grandi come sono gli adulti. Ma non c’è fretta. Ogni cosa a suo tempo”. La discussione va avanti fino a che il suono provvidenziale della campanella mette fine alla lezione. Mi sembra di aver fatto un buon lavoro. Si chiudono zaini e libri. La vita va avanti. Mentre per un attimo rispunta l’immagine di un vecchio libro dalla copertina celeste e due bimbe dagli occhi grandi e curiosi di vita, proprio come quelli che ho davanti.

Naturalmente

gatto
Sono arrivata in tempo. Questa volta. In tempo per cacciarla via prima che ne facesse uno scempio. L’avevo vista dalla finestra. La gatta se ne stava accucciata e immobile come una sfinge. Soltanto la coda si muoveva nervosamente. Lo sguardo ipnotizzato dal quel saltabeccare frenetico e gioioso tra la ciotola con l’acqua e il vaso. Un uccellino (lo chiamerò genericamente così, poiché le mie conoscenze ornitologiche non me lo fanno attribuire ad una specie precisa), stava saltellando qua e là riempiendosi il becco con i ciuffi di pelo lasciati in giardino dalla gatta, che di questi tempi ne perde copiosamente.
Aveva il becco così pieno di quella lanugine che sembrava avesse due bei baffoni. Chissà com’era contento. Aver trovato tutto quel ben di Dio per il suo nido in così poco spazio.
“La natura avverte sempre del pericolo con colori sgargianti”. Diceva l’altro giorno Simone nella sua lezione naturalistica. “Pensate al rosso scarlatto dell’amanita falloide, fungo velenosissimo e mortale, oppure ai colori appariscenti della salamandra che sembrano dire all’eventuale predatore: attento, se mi mangi ti irriti lo stomaco!”.
Lo so che mi hai vista. Mi hai vista ma hai fatto finta di non vedermi usando gli scaffali di un supermarket come fossero paraventi. L’hai fatto per orgoglio, per non riaprire vecchie ferite, per rassegnazione o perché davvero mi hai dimenticata? Un tempo ci avrei dedicato un po’ della mia energia per interpretare questo comportamento.
Secondo me, comunque, quando qualcuno decide di dimenticarti dovrebbe dirtelo prima e non metterti di fronte al fatto compiuto. Così, per carineria. Perché io ci credo alle belle cose che si dicono quando va tutto bene. E forse di questa malattia mica guarirò mai. Poi penso che c’è gente che ha bisogno di giurarsele davanti ad un prete oppure ad una autorità quelle belle cose e non le mantiene, allora penso che la mia malattia è solo cronica ma non mortale.
Questo rimuginavo nella mia testa prima di varcare il cancello del giardino e di trovare quel piccolo uccellino, di cui ignoro la specie ma che ho amato profondamente, a gambe ritte e tutto spennacchiato.
Dentro il becco nessun ciuffo di pelo. Chissà a che punto sarà stato il suo nido…
Mi siedo sulla panca mentre la gatta eccitata e miagolante si struscia alle mie gambe. Ma andate affanculo tutti, oggi. Tu, la gatta, i ricordi e il grigio che qualcuno indossa per sembrare meno pericoloso.

Abbracciarsi

abbraccio

Io non ho paura. Non ho paura di chi sa abbandonarsi ad un abbraccio. Non ho paura di me quando mi abbandono ad un abbraccio. “Parli bene, a te viene naturale, ma io sono di un’altra pasta…” “Basta aprire le ali e rimanere con i piedi per terra”. Così si fa. E sentire il calore, la morbidezza, l’accoglienza.
Una volta ho abbracciato un palo. Forse lui non lo era, non voleva esserlo ma questo è quello che ho sentito. Un’altra volta ho abbracciato un sacco vuoto. Alcune volte abbraccio un albero. Ce ne sono un paio che mi chiamano a gran voce. Di solito lo faccio nel bosco ma ce n’è uno, una quercia, che si trova lungo la provinciale e quando la vedo non resisto, spalanco le braccia e l’avvolgo. Prima però guardo se passa qualche macchina. A volte, secondo me qualcuno è passato e mi ha vista, forse però di spalle e non mi ha riconosciuta.
E poi tanto tempo fa, quando incontro Alessandro che vive a Parigi e che non vedo da anni. Gli corro incontro a braccia aperte. Poi, quando torno da te, mi tieni il muso tutto il giorno perché secondo te gli ero corsa incontro più a seni dritti che a braccia aperte. Questo è quello che si vede quando si è troppo innamorati. E ti ricordi quel libro? S’intitolava “l’abbraccioterapia”? Chissà dov’è finito. In qualche trasloco dei miei vent’anni. Insieme al mio “ salutiamoci così. La carne è debole”.
Ma più di tutto è difficile abbracciare a distanza, abbracciare chi non c’è più. A volte possiamo farlo con le parole, con la gioia e l’entusiasmo che traboccano dentro di esse. Sentire una voce che è già calore.
Gli abbracci più impegnativi sono però quelli fatti con gli occhi, guardando una foto oppure un filmino. Perché gli occhi dopo un po’ non ce la fanno, diventano umidi e si perde la presa.
“Lasciami sempre libera di abbracciarti senza paura e senza un perché”. Questo avrei voluto dirti l’altro giorno quando, per un tempo indefinito, siamo rimasti così, arresi, petto contro petto come due amici che finalmente si ritrovano, come due superstiti scampati alla guerra, come due miracolati.

Sfumature

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Ne ha fatta tanta. Di neve. Sono andata a letto che veniva giù all’impazzata, quasi ogni fiocco avesse solo una gran voglia impellente di toccare il suolo e non di danzare nell’aria. Ormai sarà alta. Da sotto il piumone un rumore davanti casa mi sveglia. C’è poca luce e capisco che è ancora presto per me. Piano, piano, realizzo che quel rumore è quello di una pala, di passi, di una persona. E’ il mio vicino di casa che prima di andare a lavoro ha spalato anche la mia stradina. Ha poco più di vent’anni, Andreino, e lavora sodo. Non è vero che i giovani sono tutti bamboccioni. E una lacrima bloccata diventa un sorriso. Perché sono andata a letto gelata. Perché le caldaie naturalmente si guastano quando c’è molto freddo e persino la corrente va via per un giorno intero quando c’è tanta neve e le piante cariche cadono sui fili della luce. E voi non potete saperlo ma questo post l’ho scritto al lume di candela, mentre la stufa a legna scoppiettava e la tisana della notte fumava nella tazza (lo so, lo so, mi ci voleva l’assenzio ma non ce l’avevo). Che detto così fa molto bohèmien ma vissuto dal vivo è tutta un’altra cosa.
Poi sento l’inquilina del piano di sopra aprire i portelloni e smadonnnare contro il padreterno perché ne ha mandata giù così tanta e mi dà noia. Mi sembra il gesto di chi, quando tutto ammaccato hai appena tirato su la bicicletta, ti ci dà un calcio per buttarla di nuovo a terra. E ritorno al piacere di quella stradina spalata. Non voglio perderlo. Non questa mattina. Dopo ieri. Dopo la notte appena passata.
“Sono sfumature. Sono solo sfumature”, mi dicesti, guardando i colori del tramonto che da Pian dei Termini sembravano impossibili da tanto che erano belli. ”Noi vorremmo che la vita, le cose, gli affetti fossero più netti, definiti, perché questo ci dà sicurezza ma non è sempre così. Non sappiamo stare nell’indefinito. Non sappiamo dargli il suo spazio, viverlo. Viverlo con piacere. E’ giorno, oppure è notte. Ragioniamo così. Eppure la vita è fatta anche di questi momenti. Sfumature. Talvolta le cose cambiamo all’improvviso. Il cambiamento arriva dirompente e ti travolge, ma il più delle volte non è così. Ed è difficile accettarlo, complicato viverlo, perché spesso non ha un nome o ne ha più di uno. E gli esseri umani sono affezionati ai nomi e alle etichette. Sarebbero già pronti con in mano un cartellino con su scritto “amicizia” al posto di “amore”. E invece no. Sfumature…” Sfumature, mi dicesti. Da Pian dei Termini, da quel tramonto. Da “che bello sentirti”. Da una stradina nella neve spalata con generosità e altruismo. Sfumature…

Dentro uno zaino, gli auguri

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Chissà se avrà ragione Intesomale quando, rispondendo ad un mio commento dice: “il guaio delle fini è che non sono mai definitive…” Fatto sta che, se proprio devo immaginarmene una anzi, sceglierla in base a quella che sento più in sintonia, non è certo il 31 dicembre, né tanto meno il primo gennaio come inizio del nuovo. Mi sembra più giusta, come data di inizio di un ciclo, il 21 marzo, primo giorno di primavera, giorno dell’equinozio, punto gamma del segno dell’ariete che con la sua energia dirompente dà inizio al ciclo naturale delle cose e della natura. Però, il calendario, l’agendina e gli auguri che mi fate mi fanno pensare che questo è il momento scelto dalla società civile. Allora mi adeguo e con piacere preparo lo zaino per il duemilatredici. Cosa ci metto dentro? Carta dei sentieri, bussola e se voglio esagerare un satellitare perché a volte è bello perdersi, ma è bello anche sapersi ritrovare. Acqua fresca per le giornate afose e il thermos con una buona tisana ai frutti di bosco e ginger per quelle gelide perché abbia sempre sete. Una bottiglia di vino da bere con gli amici dentro il rifugio dopo una lunga camminata e ridere, fare discorsi e ridere che ci vengono le lacrime agli occhi e magari quelle ce le ritroviamo a valle ma finché stiamo lì va bene e ci basta. Perché gli amici durante quest’anno appena trascorso sono stati spesso i miei guanti e i miei calzini termici. Uno specchio non solo per farmi bella ma perché ci sia sempre qualcuno che mi rimandi l’effetto delle mie parole, mi faccia vedere quali sono i miei nei, quali sono i miei punti forza. Un bengala da sparare in aria quando c’è bisogno di soccorso e sperare che qualcuno lo veda e ti dia una mano ma da sparare anche quando si è contenti per un incontro, un abbraccio interminabile, una frase detta senza inganno di testa, un bacio dato con morbidezza, l’amore fatto con amore. Ci metto anche un paio di grazie perché quando si cammina in montagna e si vede tanta bellezza non sia mai una cosa scontata. Non dare mai per scontato che si può camminare, vedere, fare uno sforzo. E di questo essere grati perché in fondo la vita mica va come vogliamo noi per queste cose. Ci metto anche il mistero. Il mistero per esempio di un messaggino che ho ricevuto con piacere ma del quale non conosco il mittente. “Cara Sandra grazie della tua gentilezza e della tua presenza che emana Amore sotto ogni forma”. Lo rimetto in circolo nell’universo. Magari torna indietro. Perché come si fa a vivere senza amore? Come si fa? Mi porto anche le mie ultime conquiste che non sono vette ma pur sempre una strada in salita: la libertà di essere pienamente se stessi, in onestà con la propria vera natura. Luci e ombre comprese. E poi, un moschettone al lato per agganciarci un sogno, un sorriso, un ‘massì’.
Ho quasi finito. Lo zaino è pronto. Ma non voglio riempirlo tutto, una tasca voglio lasciarla vuota. Si trova sempre qualcosa di bello per strada. Ecco, in quella tasca ci metto solo la fiducia. Perché non perda mai la voglia di dare alla vita la possibilità di regalarmi nuove esperienze e di affidare a lei quello che è il meglio per me, anche se non lo riconosco. In fondo, un anno fa nemmeno sapevo che esistesse il mondo dei blog, voi tutti, voi che siete una bella banda oltre i nick, oltre le parole. Ma ci pensate? Mai, mai, togliere alla vita la possibilità di sorprenderci. Ecco, questo è il mio augurio per il duemilatredici.
Buon anno!

…E riportare sempre i rifiuti a valle. Grazie ;-)

Storia di foglie e di mani

“ No, no quest’anno niente farina” mi dice scuotendo la testa Mario del Vallone. Alle sue spalle un caniccio fumante sta essiccando quel poco di castagne che è riuscito a trovare. Ma niente di più. Niente commercio. Solo per la sua famiglia. Sarà stata la siccità della scorsa estate ma soprattutto, sarà dovuto all’attacco massiccio del cinipide galligeno del castagno che ormai sta infestando i boschi. La farina di castagne, qui in montagna dove non cresce il grano, è stata nei secoli passato l’equivalente della farina di mais per la pianura padana. Con la farina di castagne, che noi chiamiamo semplicemente ‘farina dolce’, i miei avi si sono inventati i piatti più disparati per renderla gustosa e meno noiosa possibile. Adesso, a parte nelle radici, nelle tradizioni, nelle feste, la farina dolce è comunque rimasta un simbolo, oltre che un piacere per il palato. Un simbolo che io esportai con discreto successo perfino tra i miei amici delle varie nazionalità quando da giovane studentessa abitavo alla casa dello studente.
Il cinipide galligeno (dal nome potrebbe risultare perfino simpatico) è un insetto originario della Cina. La femmina depone le uova sulla gemma del castagno la quale resta inerme fino alla primavera.Successivamente, la foglia si cistizza e forma come una specie di brufolone gigante, triste e orribile. La pianta per reagire all’attacco si debilita e produce pochissime castagne secche e prive di contenuto. La bella foglia lanceolata con la quale da bimbi facevamo i caschi di toro seduto intrecciandole tra loro (perché sembrano appunto penne) oggi assomiglia a un foglio di carta vecchio e accartocciato.
Le uova invisibili di un insetto fanno questo. Producono tanta distruzione. “Butta un bicchiere di aceto in una botte di vino buono” mi diceva il mio professore di filosofia” e quel vino diventerà imbevibile”. “Butta un bicchiere di vino in una botte di aceto e non farà alcun danno”.
Com’ è facile distruggere le belle cose! Quanto ci vuole poco! E a volte la colpa non è di nessuno. Non c’è una vera e propria volontà nel farlo. Quanto distruggono il silenzio, l’incomprensione, la poca chiarezza, la mancanza di coraggio. Quanto sangue esce dalle nocche di chi bussando ad una porta senza risposta insiste solo per sentirsi dire “grazie non vogliamo niente”. Ma per lo meno sapere che si è considerati, che c’è qualcuno. Ma tu insisti e forse sbagli. Allora magari ci tiri un calcio a quella porta e lo fai così per mettere merda su merda che in fondo quando si sta male siamo tutti più limitati. Com’è facile non riuscire a capire l’altro quando nemmeno lui ci capisce. Come facile sbagliare quando siamo stanchi, stressati, sfiniti da certi comportamenti. E intanto la bellezza se ne va. Senza accorgersene. Come le microscopiche uova del cinipide che da invisibili già stanno facendo danno.
Ieri notte ti ho sognato. Eri seduto sul gradino davanti ad una porta. C’era una festa, banchetti, gente, colori, bella luce, non ricordo altro. Poco distante da te una signora, sembrava una donna saggia tipo un’indigena del latinoamerica. Dopo un po’ che gironzolavo per la festa mi sono avvicinata.” Posso?” Ti ho chiesto. E mi sono seduta accanto a te. Ci siamo presi per mano. Né io l’ho cercata, né tu me l’hai cercata. Le nostre mani si sono venute incontro contente facendo metà strada per uno. “Cos’hai? Ti vedo un po’ strano…” Ti ho chiesto. “Speravo venissi prima qui da me.“ Mi hai risposto, vincendo la tua ritrosia per certe domande. “Ma io sarei voluta venire anche subito. Pensavo di darti fastidio!” Poi ti ho guardato negli occhi senza aggiungere altro. Senza vederci altro. Solo il bello di quello che ho visto la prima volta che ti ho incontrato.
Tifiamo per il toymus sinesis che è l’insetto antagonista del cinipide del castagno ad oggi l’unico rimedio possibile. La scorsa estate ne hanno buttati grandi quantitativi. A giorni in cielo sembravano nuvole. Nuvole di moscerini. Nuvole passeggere e stranamente amiche.

Oracolo per principianti

Prima del bivio un cartello c’era
di pericolo anche nella forma
di un dosso, una curva, uno scannafosso.
Tirare il freno a mano
sul ghiaccio è una pazzia
e le tendine ricamate
“casa dolce casa”
alla finestra di un hotel
stonano alquanto.
Straripano convinzioni
mentre di te, di me e di novembre
resta solo una sciarpa rossa
che strozza la gola e spiana il cuore.